Make up, Robin: artisti italiani tra i più richiesti al mondo. Ma qui siamo ancora serie B

Intervista al make up artist Roberto Ciasca, in arte Robin: “Serve una scuola superiore ed il riconoscimento professionale. Gli altri Paesi ci stanno superando”

“Il make up non è un mero accessorio: è un metodo di comunicazione. Un mestiere per cui serve una grande preparazione, ma che in Italia è ancora considerato una professione di serie B”.
Roberto Ciasca – in arte Robin – non le manda a dire. Allievo ed erede del celeberrimo Gil Cagnè, nella sua carriera Robin ha raccolto successi professionali in tutto il mondo, lavorando con le più importanti dive dei nostri tempi, ad Hollywood ma anche a Parigi e Londra. Un successo replicato anche in Italia, dove da anni ricopre il ruolo di make up artist ufficiale del concorso Miss Italia (fin quando la kermesse è rimasta in Rai) ed è presenza fissa in tv. Ma nel nostro Paese, spiega, il riconoscimento è solo ufficioso.
“Io sono un make up artist per tutti e in tutto il mondo. Ma in Italia sono un signor nessuno. Qui il quadro per una figura come la mia è quanto meno fumoso: di fatto posso essere considerato un truccatore dello spettacolo, ma solo quando vengo assunto da una produzione. Cosa che avviene grazie al fatto che, per fortuna, sono un nome conosciuto”.

Sembra impossibile.
Ma è così. Creo valore aggiunto, creo indotto, partecipo alla creazione di make up industriale. Ma ci sono zero sostegni. Manca il riconoscimento giuridico della professione di Make Up Artist. Figura che in altri paesi – ad esempio negli Usa – è molto importante e valutata, sia socialmente che economicamente.

Ma qui nulla.
In Italia sono riconosciuti gli estetisti: non proprio la stessa cosa, soprattutto se si considera che in questo ambito la formazione è demandata alle Regioni ed è spesso carente. Per questo sostengo la richiesta di Assoacconciatori, che propone un riordino della materia riconoscendo accanto alle figure tradizionali delle estetiste e dei parrucchieri anche quella specifica dei Make Up Artist come specializzazione ad hoc.

Qual è il problema della formazione attuale?
La formazione è affidata a corsi regionali, mentre ci vorrebbe un Istituto tecnico secondario, una scuola superiore che dia maggiore dignità ad un percorso di studi che attualmente viene considerato di serie B. Potremmo dire che si tratta di una questione culturale: in Italia questi mestieri vengono considerati ripieghi, mentre sono attività più complesse di quanto si creda. Anche il trucco viene trattato come una materia secondaria. Ma è invece una professione culturale: un metodo di comunicazione, come dicevo, ma anche un servizio alla persona. Per essere un buon make up artist serve una grande preparazione tecnica ma anche umana, dalla storia dell’arte alla psicologia.

Se i corsi sono insufficienti, a chi ci si può rivolgere?
I corsi di qualificazione da make up artist di alto livello sono tutti privati e costosi. Ma anche questi sono spesso insufficienti ad affrontare la sfida in ambiti lavorativi di vera eccellenza, come cinema e televisione. Così costringono gli studenti, dopo aver sborsato cifre importanti, a rivolgersi a me per imparare davvero il mestiere.

Tu insegni da sempre.
Ho assimilato la tecnica da un grande, arricchendola attraverso la mia cultura, il mio modo di vedere le cose. Quando ho notato che c’era interesse per il mio modo di lavorare mi è venuto automatico insegnare. In questo sono generoso, non tengo per me neanche una virgola. Me lo ha insegnato Gil Cagnè. In questi anni ho sfornato centinaia di make up artist e truccatori. Centinaia di ragazzi e ragazze che, troppo spesso, vengono da me già ‘arresi’.

A loro cosa consigli?
Di essere professionali, di rimanere sempre sul pezzo. Ma anche di amare il nostro lavoro, un lavoro di servizio. Insegno ai miei ragazzi a cercare di capire l’altro. Il nostro è un mestiere che si basa molto sulla comprensione psicologica.

A qualcuno suggerisci mai di andare via dall’Italia?
Il nostro è un Paese ormai seduto su una vecchia poltrona di velluto, gli altri ci stanno sorpassando. Io ho lavorato a Hollywood, a Londra, a Parigi. Lì è molto dura: in un secondo puoi diventare nulla. Ma anche le soddisfazioni, quando arrivano, sono più grandi.